La barca di Papaciturro

LA BARCA DI PAPACITURRO

Di

Accordino Antonio

Sei l’alba ed il tramonto, mare e sole, nuvole e monti, ho perso il mio canto, se apri questo sogno maldestro di un uomo abbagliato, sarò l’espressione sincera chiamerò la creatura arroccata nel regno fumoso dell’invidia e lo costringerò a scendere nel campo di grano. i tuoi pensieri sono fiori che si aprono e profumano d’amore. Verrò a correre sulla strada di campagna, t’inseguirò dolce creatura nella natura e risorgerò dalla mia inutilità.

LA PROCESSIONE

Un altro anno è terminato, dietro vengono i trascorsi, la coda, una processione interminabile, qualcuno borbotta, bisticciano, sono consumati, comunque ritenuti morti, non meritevoli di nessuna considerazione.

Un giovane euforico, esce dai campi incolti che costeggiano la strada, i gambali dei pantaloni nuovi, impigliati e stropicciati dall’erba secca, ed inconsapevolmente s’arruola, incomprensibilmente appesantito, si trascina assieme ai delusi e rammaricati, con l’energia esaurita, i sogni espulsi, schiusi, frantumati, le labbra secche, spaccate, insomma è incappato in un plotone di reduci, rottami di guerra.

Il giovane anno, alzatosi dal letto, era andato in cerca di un sorriso per entrare nel giorno, ha tanta buona volontà, non riesce, è a disagio, vede le persone camminare a testa china, molti ragazzi, più o meno della sua età, non sanno che direzione prendere, par che abbiano gli occhi spenti, ciondolano, sono in attesa di una corrente, che il vento li trascini lontano, in un posto diverso, in un altro mondo.

La sofferenza e l’indignazione, lo prendono per mano, le pene, stanno sedute sulla soglia di casa, mette il piede in strada e subito s’accompagnano, il passo svirgola, ritrova l’equilibrio e volge la testa, vorrebbe chiedere qualcosa, avere un’informazione, passanti frettolosi s’allontanano, qualcuno s’arrabbia, all’improvviso hanno tutti fretta di andare, nessuno ascolta.

Ha bisogno di un consiglio, cerca nel cielo un segnale, nuvole bianche s’allontanano, lasciando sull’orizzonte, sulle montagne, una strana foschia, pennellate di un dipinto che l’autore scopre in quel momento, forse verrà a presentarlo, descriverlo anche se la lettura è un’emozione personale e non è un veggente.

L’anno, ancora giovane, con il vestito nuovo che ha indossato per il giorno della prima comunione, ha attraversato l’abitato, le ultime case di periferia, lo vedono rimpicciolirsi, è un puntino e poi scompare in una polvere gialla che a tratti si solleva dalla strada e si butta per i campi, portandolo con sé.

Il giovane, comprende che è finito in un posto che non gli appartiene, in compagnia di persone che non possono aiutarlo, la processione non è un omaggio alla Santa, una preghiera elevata per intercedere, non ha un significato religioso, è un errore andare con loro e tenta di venirne fuori, non è facile districarsi da quella pletora di tibie e peroni, ginocchia e femori, avambracci ed omeri, carpi e tarsi, gabbie toraciche e crani reclinati a destra, altri a sinistra che si muovevano senza un vero e proprio coordinamento, e solleva le braccia e forse grida, vuole andare per proprio conto, riprendere la sua strada, magari rientrando nei campi per non incorrere in altre sorprese che servono solo a fargli perdere il buon cammino.

Una tempesta di sabbia, probabilmente la gialla vestitasi di bianco, forse per farsi perdonare per la direzione impropria che gli aveva fatto intraprendere, insomma impietositasi, gli venne in soccorso per districarlo da quelle anime passate, incartapecorite e finisce, quasi esanime, nella cunetta con un ragazzetto che si stringe al petto un cagnolino che sorpreso, così lo mise a fuoco, gli abbaiò addosso un sacco di epiteti incomprensibili, violenti tanto da costringerlo a rotolarsi per più di metà di quel campo, fino a raggiungere e fermarsi contro un albero di ciliegio, che al contatto sloggiò dai rami che stavano a consumare il pasto, uno stormo, una miriade di volatili voraci, divenuti oramai abitudinari, ospiti stanziali tanto che ai piedi, dai noccioli espulsi intorno, alberelli di varia altezza, si disputavano il terreno e lo spazio con alberi di albicocche, impossibile però sopraffare il meleto che si estendeva per il resto del terreno, oltre la casa colonica.

L’attesa è vana, stare fermo è inutile, non conduce a nulla ed allora pensa che forse farebbe bene, rientrare in casa, di tornare indietro.

Il viaggio all’incontrario, non è possibile, ripercorrere le tappe già vissute, in questo luogo non è consentito, riparare gli errori, alleviare l’orgoglio, la presunzione, recuperare la gioia, l’amore interrotto per osservanza, sacrificato e poi messo da parte per carriera, indecisioni e stupidaggini, sarebbe un grande evento.

Il viaggio, per sua composizione e sviluppo, non contempla, un vettore surreale, a prescindere un raggio di sole che non è qualcosa di magico che abbia il potere di cancellare il tratto percorso, quel che è stato, è un momento di rimbalzo, una visione celeste.

Il ritorno alla stazione di partenza, rientrare nel passato e ripartire, acquistare un altro inizio, carichi dell’esperienza, non si compra, non esiste un altro rapporto, non è valido, forse non è un miraggio, è un passo gigantesco, è rientrare attraverso uno specchio nei principi imparati, negli esempi appresi recuperare qualche metro di coraggio, riappropriarsi di un domani, del giorno che nasce, rimetterlo in gara e farlo apparire diverso, appena inventato e riempirlo di tante cose preziose che il senno del poi, ci farà scoprire.

L’esperienza, è un libro che devi sapere leggere, vuol dire apprendere, se sei in grado, può accadere che riprendi il percorso, con spirito nuovo, diverso ed avere altre occasioni, altrettanto significative, importanti, creare altre figure più piene delle precedenti, con significati molto più alti, trovare la purezza e presentare l’arte, la bellezza che i tuoi sensi aspettano di realizzare, che i tuoi occhi sanno cogliere, succede però che dopo un po’, il passato è dimenticato, ognuno si vergogna e ritorna a fare il saltimbanco, ci dimentichiamo degli altri, dei fratelli, dei genitori, del nostro prossimo.

L’anno giovane, ha raccolto il suo sapere, ha curato ed amato ogni virgola e trattino, apostrofo e punto ed a quest’ora ha già lasciato la stazione e con le carrozze agganciate l’una all’altra, si è messo in cammino, ha l’accortezza di sostare e dedicarsi alla pulizia, a curare quelli che stanno male, che hanno bisogno d’aiuto ed è soddisfatto, ha ripreso gli episodi per i quali non andare orgogliosi, non proprio dignitosi e l’ha convertiti, almeno alcuni, altri in buona parte, ricuciti li ha rimessi in luce e tratti, in un buon esempio, ha studiato ed estratto dalla processione, una bellissima, magistrale lezione ed è divenuto un compagno di giuochi, di un sano passato.

L’INSIGNIFICANTE PAROLAIO

Io che sto in piazza ed ascolto il parolaio

della politica, mi sento da subito infastidito,

e dire che non ho sentiti tanti,accatastando gli anni.

Ogni volta spero che cambino il registro che ha condotto
queste persone sulla via dell’arroganza,

della presunzione, a liberarsi del fardello
nel quale s’avvolgono per nascondere l’incapacità, l’ignoranza, ad un intera popolazione che spera,

non tanto per se, quanto per quei figli, giovani

che studiano, non lavorano e non sanno a quale Santo votarsi e si recano alle urne, o si esentano da farlo,

e penso alla mia generazione che sentiva il dovere

di scegliere qualcuno, uno che facesse qualcosa

per il bene comune, per sollevare le sorti della città.
Ho conati di vomito che graffiano la gola e m’allontano in fretta, esco dalla piazza e cerco un angolo, visto

che il mare, oramai che abito in città, mi è divenuto sconosciuto e dire stavo ore seduto sulla battigia

a cullare i miei sogni, la mia libertà, il desiderio

di un domani di lavoro, con una donna innamorata, finiti gli studi, prendere il treno ed andare a cercare l’opportunità che ho aspettato per anni, con i genitori

a chiamarti, un minuto e l’altro, a svolgere i compiti.

Ho scalato la montagna e credendo d’essere arrivato,

di avere conquistato un posto di lavoro, ho trovato

una muta di cani mi venivano dietro digrignando i denti.

La sporcizia ha preso possesso delle acque azzurre,

di donne ed uomini che han perso la dignità, la speranza

e camminano dietro al primo Bambolotto che corre,

che dall’auto scoperta, alza le braccia agghindate

di orologi di marca, anelli di mafia, cuori di criminali

e guarda in alto per non vedere la tua faccia.

IL SILENZIO DELLE LUCCIOLE

Un tempo, solevo andare per stradine, viuzze, mi scontravo con gatti ed anche con qualche cane, uomini mai, specie le donne stavano chiuse in casa o meglio a guardare dietro le finestre o le vetrate dei balconi ed ora che la luce riempie ogni luogo, ogni borgo ed ogni balcone, c’è un turbinio che mi confonde e m’attardo fuori da questo mondo a cercare un poco di silenzio circondato da uno svolazzare leggero di lucciole e farfalle bizzarre

QUESTO NATALE

Questo Natale ho addobbato l’albero

e vi ho posto in cima una mezzaluna

con dentro Gesù, Giuseppe e Maria

Sui rami ho agganciato Angeli, diavoli,

pagliacci, facce di sole e pigne,

palline colorate e corone di cristallo

rosse, giallo, bianche ed arancio

L’albero scoppiava di luci ed allegria

La mezzanotte stava nascendo e la musica

si espandeva dolcissima in ogni stanza

Ad un tratto, un maiale nero, selvaggio,

irrompe sfondando la porta terrorizzando

mio padre, mia madre, mia moglie

col bambino attaccato al seno

Spari, scoppi, grida, sirene

percuotevano la notte seminando morte

L’albero è abbattuto e la mezzaluna

con le punte spezzata è ai miei piedi

Il maiale selvaggio ha sconvolto il ciclo

impedendole di diventare piena e le teste

mozzate di Giuseppe e Maria sugli orecchi

a squallido, abominevole ornamento

Questo maiale è un criminale e zufola

negli angoli con l’intento di stanare

la più lieve, inconsistente sagoma vitale

Salta in strada al minimo rumore

e rade al suolo quel che incontra

Cerca il bambino Gesù che gli è sfuggito

e nessuno ha il coraggio di abbatterlo

Brucia case e negozi, palestre e chiese,

uomini, donne e bambini considerandoli

senza valore, alla stregua di una pratica

usuale e la civiltà guarda indifferente

DENTE DI LUNA

Sollevò il piede destro e lo pose

sul bordo della conca di arenaria

e scaglie di marmo della funtanenna

La sua faccia solare, il sorriso

spiritoso mi attrassero e sorpreso

uscii dall’incavo del muro a pietra

Ravvisai in lei un’acciuga salita

dal mare sottostante a sciacquarsi

Nuotò nell’acqua dolce, leggera

in un turbinìo di bollicine e gorgoglii

L’aspettai con pazienza trepidante

e le donai una corona di capperi in fiore

specchiandomi negli occhi di mandarino

L’accompagnai per la statale sollevandomi

sull’asfalto ai toni dolci che usava

nell’esprimere il desiderio di cultura

arrivando ad annullare la ritrosia

solitaria che mi distingueva

L’accolsi con ospitalità fraterna ed affacciato

ad ascoltare la notte m’accorsi che covavo

nel petto un sogno dimenticato da tempo

Osservai la luna che con la mano sulla bocca,

contrariata, girava gli occhi a destra

ed manca a cercarla e le feci uno sberleffo

L’accettai e le diedi il posto che meritava

e ritrovai l’esuberanza che le tragedie

e l’età avevano creduto d’avermi tolto

La portai al teatro antico, ai laghetti

e le scoprii gli angoli e le stradine

che la città di Patti m’aveva insegnato

a conoscere durante gli anni di scuola

Ho accantonato le strade con la faccia sporca

e con le mani addestrate a strapparti la fatica

con maestria e minacce, umiliando e sopraffacendo

Ho riconquistato la confidenza nei giorni

Ho ritrovato la bellezza della giovinezza

e cammino con serena sicurezza nel domani

Rivolto alla luna la guardo stupito

e la saluto con gioiosa riconoscenza

IL SENSO DI COLPA

La domenica mattina, con la libertà in tasca,

sono andato a passeggiare, sul lungomare

La banda musicale, sistemata nello slargo,

allieta ed attrae i passanti, con ciau ciau

che legata alla batteria è un altro spettacolo

La cagnetta, salta ed abbaia aizzata dai furbastri

che gli fanno i dispetti, alle auto di passaggio,

al mastino Napoli che indifferente, gli passa accanto

Dopo, mi sono fermato alla chiesa della ferula

ed ho comprato dal figlio del mio amico Orazio

un mazzo di fiori ed alla pasticceria situata sulla strada,

in faccia, ad alcuni metri di distanza, una guantiera

di diplomatici, cassatine, tartufi, cannoli

alla crema ed alla ricotta, bignè bianchi e neri

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Percorrevo il marciapiede, con la mano a piano

e la sigaretta accesa in bocca, quando il giorno,

all’improvviso, mi è scoppiato in ogni parte del corpo,

con un bisogno irrefrenabile, d’essere perdonato

La mente occupata a risolvere cotanto problema,

ha spento la curiosità impedendomi di fare domande

Il tempo incalzava e mi faceva, una fretta ossessiva

Il senso di colpa, inferocito, m’assillava alla gola,

chiudendomi il petto in un pugno di ferro

Notando l’uscita dei fedeli dalla Santa Messa,

mi costrinsi a liberare un grido e chiesi loro:

Vi prego, aiutatemi. Qualcuno, per favore, mi aiuti.

Ho un estremo bisogno d’essere perdonato. “

La gente, accenna uno sguardo e con passi frettolosi,

cambia direzione, inverte la marcia e salta in strada

La distanza del marciapiede opposto, li autorizza

a lanciarmi insolenze, epiteti e sguardi sdegnati

L’acidità che sprigionano, mi scortica la pelle.

Vi prego, aiutatemi. Qualcuno, per favore, mi aiuti.

Ho bisogno d’essere perdonato. “ grido di nuovo

I loro orecchi che conoscono altri suoni, rifiutano

d’ascoltare la mia voce e cercano di nascondersi

Un peccatore, un uomo ben vestito, li imbarazza,

li mette a disagio, può indurli al confronto

Un dolore atroce allo stomaco, mi costringe

a sedermi, a sdraiarmi lungo, sul marciapiede

Ho perso ogni energia e le palpebre mi cadono

sugli occhi, spingendomi a mettermi a dormire

Cerco, in un ultimo sforzo di rivolgermi alla chiesa

Lancio uno sguardo fiducioso, alla croce che svetta

oltre la costruzione, nel cielo e ricavo all’istante,

a vista, un senso di bontà e mi sento fortunato

Il Vescovo sta scendendo le scale della chiesa

Un mantello rosso porpora gli copre le spalle,

scende all’ombelico e si apre in un gran fiore

Il Vescovo ha un aspetto salutare e la corpulenza

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non gli toglie il passo svelto del marciatore

Ha alle braccia della tunica, un nugolo di preti

che gli porgono, ordinati, libri, registri da firmare

ed è inseguito da altrettante tuniche svolazzanti

Un gruppo di giovani, con il cipiglio del privilegio,

gli spazzolano le scarpe saltellando sulle cravatte.

Il Vescovo, con la mano destra a tre dita, benedice,

l’altra gesticola con veemenza e lotta per mettere

a tacere, il bastone che imperterrito sforna domande

Il profondo cielo azzurro, lo gratifica e lo soccorre

La sua azione, tende ad intimorire gli avversari

e rafforzare determinazione ed intransigenza ai figli,

altrimenti, le sovvenzioni ricevute, emigrerebbero

e con molta probabilità, finirebbero in mani sbagliate

La sua missione, è un programma di stato e di fede,

di volontariato, d’aiuto umanitario e non può mancare

Mi armo, dunque di sana cristianità e corro gridando:

Aiuto, ho bisogno d’essere perdonato, “

Mi crogiuolo che possa sentire la mia voce

La mia distanza è nelle mani sacerdotali e salto,

corro, cado e trotterello per vincere il passo

Il Vescovo, ha fretta e non accenna a fermarsi

neanche per beneficiarmi di un segno di croce.

L’insistenza della mia richiesta, invero lo ha colpito

e seppure infastidito, lo rallenta e si dispone,

inaspettatamente, a chiedermi con tono brusco:

Quale è il tuo peccato? Dimmi il tuo peccato. “

Il tempo gli fuggiva sotto i piedi che con affanno

cercavano di districarsi dall’asfalto scivolato,

disperso, sopra e nelle lastre di pietra, levigate

Ho bisogno d’essere perdonato “ gli ripeto

Quale è la tua colpa? “ ritorna a chiedermi,

spazientito, riprendendo la corsa, evitandomi,

allontanandosi, senza rivolgermi uno sguardo

Fuori il peccato “ mi gridano i preti, gli allievi,

transitandomi accanto, rivolgendosi con un coro

di risate, sbattendo i denti e le labbra in modo strano,

nel verso del rito dell’estremo saluto ai defunti

Io non so il peccato. Ho un senso di colpa.

Ho bisogno d’essere perdonato. “ grido ancora

alla coda nera che s’intreccia con le auto e la strada,

confondendosi ed assumendone le sembianze.

Il Vescovo ha preso il volo ed il rosso porpora

del mantello, è un riflesso che va scomparendo,

sopraffatto dal nero delle tuniche che animano

l’orizzonte, con le cravatte che piroettano festose

Ho bisogno d’essere perdonato “ tento di dire,

con la voce affievolita, mimando di corrergli dietro

La strada è deserta e silenziosa, la città vuota.

La gente ha abbandonato le case ed è evasa

La viabilità urbana, liberata mostra le sue gobbe,

le bellezze naturali, le opere d’arte, espresse

nei secoli dall’umanità e lasciate incustodite,

a decantare nel degrado e con le mani appoggiate

agli ginocchi cerco di prender fiato, cercando

le tracce, un segnale, l’indicazione del luogo

La miopia mi lascia ogni cosa lontano e mi alzo,

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a passo piano, m’introduco nell’orizzonte che man

mano si apre, sul fetore emanato del manto stradale

che si restringe e s’incunea nei palazzi senza un fiore

al balcone e con le famiglie schiumanti di rabbia

Un brulichio sempre più forte m’annuncia una piazza

Uomini, donne e bambini, senza distinzione di sesso,

saltano a succhiare dalle mani, dalla bocca, all’altro

quel che sono riusciti a trarre dai cassonetti dei rifiuti

che il mercato rionale ha buttato nei giorni

Ho bisogno d’essere……” mi scappa dalla bocca

Ho paura, mi sento minacciato e cerco una via di fuga

I piedi, inconsulti, non rispondono ai miei comandi

Un vociare petulante, straziante, animale, mi circonda

Ho bisogno di spiantarli dal selciato e raccolgo

ogni briciola dell’energia rimastami e spingo

Sono circondato da residui umani, gonfi, con lo scheletro

a fior di pelle, coperti da miriadi d’insetti che avanzano

e non trovo di meglio che farmi la croce, nella bocca

con la lingua, per sciogliermi da quella maledizione

Sono sfinito ed abbarbicato ai fili dell’aria mi trascino,

oltre la piazza e scopro la stazione e senza biglietto

salgo sul treno, in movimento, senza destinazione,

sperando che qualcuno risparmi le chiacchiere,

lavori e rigoverni la piazza, riportando l’uomo a casa

e ritorni a misurare la civiltà che ci distingue.

LA CASA DI PERIFERIA

La festa del compleanno di mia madre mi incitava

a raggiungere il villaggio pur se lo spostamento

dal pranzo alla cena mi aveva messo in ansia

L’ora serale mi creava tensione nella guida e la evitavo

se non era necessario ma quella sera non ebbi modo.

La testa mi diceva che sotto covava qualcosa d’indefinito, comunque mi diressi con l’auto comprata da qualche mese,

a prendere percorrere la bretella che conduceva in periferia

Guidavo ad andatura moderata fino allo svincolo, fermandomi

allo stop ed assicuratomi delle corsie deserte, mi mossi

per attraversare ed immettermi verso l’imbocco dei caselli

Lo stop ormai alle spalle, raggiunta la corsia centrale,

è sbucata dalla pioggia, a velocità sostenuta, un’auto

che perdendo il controllo, iniziò a deviare verso sinistra

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puntandomi, invadendo la corsia centrale contraria

al suo senso di marcia, senza darmi scampo,

colpendomi alla ruota anteriore, circumnavigando

il cofano e collocandosi, parallela sulla destra

Sono uscito dall’auto, con l’aiuto di mia moglie

che la malattia del diabete m’induceva a tremare,

meravigliato, ammaccato ma con i miei piedi.

Lo spirito dei morti è arrivato in tempo a proteggermi

L’autoambulanza mi ha accompagnato all’Ospedale

La polizia della strada, redatto il verbale, sottoscritto

mi ha multato e penalizzato di sei punti della patente,

anziché arrestare il conducente dell’auto investitrice,

offrendomi, però la possibilità di presentare ricorso

al Giudice di Pace e consegnandomi la copia

il giorno successivo a domicilio con un gran sorriso

Lo stop è un principio che determina la colpa

Un peccato originario che la legge applica in danno

La risultanza della distanza, non è prova a discarica

La responsabilità dell’incidente rischia di venir capovolta

ed allo scampato non resta altro che sperare

nella magnanimità dello spirito dei morti

Il tecnico sanitario di radiologia medica

Lo sconosciuto lavoratore che manipola

radiazioni ionizzanti per sei ore al giorno ed oltre

quando espleta il servizio di reperibilità,

è in possesso del diploma di scuola media superiore

ed ha studiato frequentando un corso chiuso

per conseguire la specializzazione

di Tecnico Sanitario di Radiologia Medica

Questo villico del Medico, anche se per effetto del caso,

è situato nel mirino della morte per cancro

Ad ogni modo ha un’aspettativa di vita

più corta di ogni altro lavoratore ed in passato

è stato amputato delle dita e delle mani

L’Esperto qualificato dell’Azienda con un colpo d’ingegno,

ha sentenziato che è un lavoratore “ non esposto “

Il rischio alla salute che questa professione si trascina,

è stato debellato con un tratto di penna che ha l’odore

d’incapacità e risparmio, rifilando nel contempo

una battuta d’arresto all’annosa richiesta d’ingresso

nella fascia “di lavoro usurante “

La protezionistica insegna che non esiste materiale

che abbia la capacità di arrestare la loro corsa

ma che può soltanto attenuarne la penetrazione

L’Esperto qualificato nominato dall’Azienda

asserisce che è stato indotto a questa valutazione

dalle risultanze di un’indagine sulle dosi assorbite dai lavoratori

La serietà della Società preposta alle rilevazioni mensili per altro,

riesce a misurare dosi maggiori anziché al Tecnico

che lavora in diagnostica, all’infermiera dell’accettazione

Questo enunciato evita all’Azienda di provvedere a prescrivere

gli esami relativi e le canoniche visite periodiche

che la legge stabilisce “ a salvaguardia “ e dislocare

il Medico deputato ad altro impegno

Un’operazione difficoltosa che ha costretto l’Esperto

a fare retromarcia alla velocità della luce

ripristinando l’incarico del Medico.

UN GIORNO RECUPERATO

Una voce, velata di sorpresa ed infarcita d’affetto, s’alzò

nell’aria e dal banco del lotto ai tabacchi, aggirando con cautela,

la rastrelliera con libri, riviste e giornali, con commovente delicatezza, cullò il mio nome, accarezzandomi gli orecchi, regalandomi, quel leggero profumo di rosa che conservavo

con le angherie ed i malanni dell’ottuso, sistema scolastico.

La pelle della faccia, trapunta di macchie, precocemente invecchiata, m’impedì di riconoscerla e con dovizia, accoglierla.

Un sorriso amichevole sulle labbra, rammaricato e sofferente, cercando di riportare a galla, d’estrapolare dalla memoria,

una bella storia, con un incedere titubante, le andai incontro

Il calore nel trasporto dell’abbraccio ed il bacio del saluto, rasero

al suolo ed ebbero il sopravvento sugli ostacoli del cammino

Il passato, d’improvviso, uscì dal buio che aveva scalzato

l’azzurro e mi rivelò uno spazio di cielo, inondato di sole

Gli anni, si liberarono di una quantità enorme di polvere gialla

ed emersero, a pugni di giorni e mesi, con aria furtiva e qualche

spiritosaggine di accomodamento, da una bolla appiattita, collassata, atrofizzata, ed ormai irriconoscibili, con un’euforia

insensata, s’inventarono pure, alcune folate traboccanti di gioia

L’amore che si era trascinato, dietro il catechismo, le recite, i pellegrinaggi alla Madonna, a scuola con l’inconsapevolezza

di un’esistenza, timida, rispettosa, timorosa, quel carnevale,

si manifestò nella sua interezza con una pienezza che esaltò

il soldato in licenza e lo indusse a correre con scarpe alate,

sulla filiera dei pini nani, oltre la rocca e le barche in secca

La complicità e la naturale leggerezza della festa in maschera,

mi rivelò l’irragionevolezza dell’obbligatorietà dell’esecuzione

di ordini insensati, dichiarati immaturi ed avvalorando l’ipotesi,

della gretta incapacità, richiesta di base, per assumere quel grado.

La forza silenziosa della verità, mi rese cosciente di quell’amore e la sua disponibilità fu iperbolica, fin oltre la mezzanotte, ballando

con passione, in una fragranza fisica, gestualmente partecipe,

ascoltando e leggendo versi, mangiando la pasta alla carbonara.

sotto lo sguardo colpevole delle mamme ed invidioso delle figlie.

La scomparsa improvvisa dalla sala del teatro amatoriale,

mi condusse a cercarla nell’oscurità notturna, senza luna,

fin sotto l’alba con qualche barca che ritornava bestemmiando

dalla pesca infruttuosa e non raccomandata, assimilandomi

Avrei voluto chiederle una spiegazione, ai baci ed alle carezze escluse, alla dispersione per strade e città, oltre la mia età,

di quell’amore e metterle in mano le conseguenze del trauma.

Ho preferito prendere per buono il suo sorriso e l’affetto del bacio

e rimettendo nel sacchetto di carta assieme alle sigarette i rametti potati negli anni, l’ho salutata ed in strada, accendendomi

la sigaretta, ho concluso che ho recuperato un giorno.

LA BARCA DI PAPACITURRO

Il diploma di scuola media superiore, accompagnato all’ardire

di richiedere, dignità e giustizia, per una società asservita

ad un potere che non consente il diritto se non gli appartieni,

mi ha costretto, a lasciare il villaggio e cercare lavoro,altrove,

all’incontrario, della professione di tecnico Sanitario di radiologia

Medica, che m’ha ricondotto, a meno di venti chilometri da casa

con negli occhi l’umiliazione e la fatica d’aver disperso i migliori anni

Spinto dall’esperienza per le lotte perdute, ho adeguato la mente

all’intendere del proprietario e con le mani dolenti per il trasloco,

cercavo di rilassarmi in un piano rialzato composto di due vani

nel centro cittadino di questa città agricola e marinara, consegnata

all’industria della trasformazione che anziché offrire e mantenere

occupazione ha conservato l’emigrazione e vomitato veleni mortali.

Ogni giorno tento d’alleggerire le difficoltà derivanti dal disordine

alimentare che la malattia del diabete reclama senza pudore

e mentale che la solitudine mi recita con crudele avidità,

barcamenandomi col turno di servizio, la spesa, la preparazione

del pranzo e della cena, una passeggiata, aspettando le vacanze

per le feste comandate e quelle estive per godere della presenza

del mio ragazzo, accettando il sovraffollamento della casa genitoriale

Un giorno a sorpresa, venne in auto col cugino ed a sera ripartì

con la promessa di telefonarmi appena rientrato dalla madre.

I giorni s’accumularono e divennero un groviglio di fiori rottamati

Il silenzio m’induceva a mal pensare e mi mandava fuori equilibrio

La madre considerava la casa un letto per riposare dalle visite

agli amici, ai negozi di lusso esaltandosi a comprare lasciando

la cura del resto, compreso il figlio, alla volontà del Signore grande.

Il possesso, il denaro le estorcevano il cervello trattenendola al lavoro

Andai a cercarlo al vecchio quartiere che crepitava di malaffare e morte

M’aggirai dalla porta alla finestra, sotto l’occhio sospettoso della gente

Pensai che fosse andato da un compagno a confortare la solitudine

Mi saltò in mente che la sua presenza fosse conosciuta alla nonna

e con l’ansia che mi consumava con una lenta vendetta, salii il monte

Il diabete reclamava assistenza e contrariato mi disposi al ritorno

Una barca di legno attraccò planando alla stazione e mi sedetti a prua

Voltando lo sguardo, scorsi mio figlio sulla strada, in fondo alla valle.

I capelli acconciati a treccine, s’allontanava veloce, dall’abitazione

di mia cognata che lo chiamava con voce inclinata, dalla soglia

del garage, con forno per il pane ed adattato all’occorrenza.

Mi avviai a raggiungerlo e senza respiro lo vidi balzare in barca.

con un’espressione corrucciata, gli occhi bianchi, stralunati.

Una pozza di luce lo pervase e mi espulse dall’attesa, sciogliendo

gli ormeggi, precipitando oltre il buio, in una navigazione turbolenta.

DONNE

Una fila di ombre bianche, presidiano la strada protetti

dai muretti, cartelloni pubblicitari e dagli gli alberi di pino

Sono cadute dalla luna e sono costrette a nascondersi

esponendo il proprio corpo nel buio, sotto i fari delle auto

Ogni folata di vento è foriera di tempesta e cercano riparo

scivolando nella scarpata oltre l’orizzonte, aspettando la quiete

Il silenzio che scende è una battaglia per la sopravvivenza

L’aria si satura di grida, minacce, percorse, stretta alleata

della morte che s’avvicina lentamente, colpisce con truculenza

sconvolgendo ogni credo, invero lasciando la civiltà indifferente

Sono candele accese dietro le finestre e guardano la notte

pregando che il coraggio possa assisterle e metterle in salvo.

Sono ombre nere, gonfie di terrore e vagano nella propria casa,

sacrificando la dignità, trattenendo la mano del compagno

che sordo, strazia ogni giorno il suo amore, la sua speranza

Facce di pietra, digrignando i denti, hanno assediato

la grotta e sopraffatto la donna che allatta il bimbo

La donna è messa in gabbia ed è lasciata senz’acqua

Il seno è secco, la creatura piange, la terra è minata

Hanno il volto stremato e scalano la montagna, s’accampano

nell’erba e costruiscono un’alba per la gioia dell’azzurro

Siedono sulle macerie dell’età e pregano tentando il perdono

Le donne sono in lotta ed intagliano sulla pelle dilaniata,

l’identità che l’uomo per debolezza tenta di cancellare

La barbarie, domina gli strumenti ed evira la ragione

Le ombre si svestono dell’oscurità e si aprono al sole,

escono dalle onde del mare e s’adagiano sulla battigia

Hanno il colore dell’arancia e libere, ridono con allegria

Sono un fremito d’amore ed hanno in grembo la creazione

Le donne, sono l’emozione che solleva la civiltà dell’uomo

che affoga nelle parole roboanti, il lume della ragione

IL PUNTO GOBBO

Ogni giorno che veste, ha una luce diversa, gli dipinge il vestito

e la gente, fa fatica a riconoscerlo, per le scorie ferrose trasportate

Ha un ago nel taschino della camicia, sprigiona allegre fiammelle

che si spengono in volute gorgheggianti, un profumo sconosciuto,

un valore che alcuno riesce ad acquisire, è una continua evoluzione,

i teatri di guerra, ne impediscono la visuale e s’inventa un cammino.

Il punto gobbo, con tenacia scala il monte. ne potrebbe morire, invece

sorge, si bagna la lunga barba argentata, i capelli radi, cambia vestito

ed è la dimostrazione, la differenza che contiene la saggezza, la pace

che conduce gli uomini a camminare con la mano nella mano.

L’amore

Il giorno, a bordo di un carrettino siciliano dipinto a mano,

trainato da un vecchio somaro, è salito al colle a raccogliere,

un fiore di luce, un dono che l’uomo non riesce ad apprezzare.

L’amore, è il pensiero più bello ed ha bisogno d’essere curato

Un coro di cicale, grilli ed anche rane, festoso lo accompagnava

Il giorno, ha la nebbia negli occhi, giuoca balbettando con i pini,

salta sulle barche tirate in secca, è il bimbo che cerca la mamma

L’amore, è un uomo, ritornato bambino,non sgridarlo, parlagli piano,

sii l’acqua del mare con la rena, la bacia senza tregua,

è un pavone che scuote i suoi occhi divini

Quando il vento grida non metterlo alla porta,dagli la mano,

portalo sul tetto, è un manto di magia, la voce della luna

La paura

Un riflesso scomposto

la tira fuori dall’aria

nella quale stava nascosta

Si contrae e scoppia

in una tempesta di sabbia

La paura

percuote le gambe

brucia gli occhi

e balbetta alla mente

Par che si sia allontanata

ma dilata la memoria

in richiami primordiali

e svuota d’ogni principio

la ragione

La paura

azzera l’età

ed a ritroso del tempo

sfilaccia l’esistenza

consumando il presente

in una scheletrica

luminescenza 

Sogni immolati

Capo Milazzo

scoppietta di bagliori

di festa

La luna

fa le boccacce alle barche

che vanno a totani

a prima sera

e mi par d’acchiappare

i sogni della fanciullezza

che ho immolato

per la conquista

della medaglia dell’uomo

La notte

è straziata dalla gatta

di nonna Santa

che par chiederle perdono

per l’ingordigia

Sferraglia alla stazione

il treno delle quattro

Passa Caloriu

a chiamar la ciurma

a calar la sciabica

Esco nel mattino

ed un vento malandrino

m’inchioda al muro

a scontar il dolore

che mi porto dentro

Ho immolato

i sogni di ragazzo

ed ho perso

M’hanno squalificato

perché inadatto

a quella gara

Il mare di pietra lunga

è verde e viola

Entro in acqua

La sua bellezza

m’intimidisce

Sulla soglia bianca

c’è l’oscurità seduta

Ho paura

ed esco con affanno

Mi siedo sullo scoglio

e guardo l’orizzonte

L’acqua tonnara è vuota

Ha perduto il “ leva-leva “

La sua voce mi arrivava

sul riverbero del sole

come su un telefono

di bicchieri di carta

e sognavo

Cerco i passeri volare

dal fico catalogno

ai buchi nel muro

della casa di don Micio

ma il cemento ha sfrattato

anche loro

Ospitava gli spiriti

ma giuocavano a carte

sulle scale

senza timore

Ora mi nascondo

dalla luce della strada

e fumo 

Pasquetta a guardia

L’antica strada romana

da majaru ci condusse

tra rovi e spine

a monte Melliuso

rimasto nei secoli

a guardia dei Saraceni

Quasi in cima

a precipizio un coniglio

mi venne incontro

Cercai d’afferrarlo

ma mi passò tra le gambe

facendomi scivolare

qualche metro sotto

La rocca al lato del viottolo

mi accolse con gesta amiche

La ragazza, forse intimorita

m’allungò le mani

e mi trattenne, ridendo

La salita era ardua

Richiedeva fiato ed energia

Salivo al monte con un gruppo

che per nomea m’era nemico

Il villaggio risentiva ancora

della divisione atavica

operata dai Signorotti

per tenerli sotto controllo

A secondo del tempo, comunque

affiorava un po’ della ruggine

La ragazza era ospite

della zia per la festività

Ci venne naturale

prenderci per mano

e proseguire solitari

I ruderi dell’antico sito

sparsi per una vasta area

erano abbandonati all’incuria

Raccontano la storia

di gente asservita ai frati

del Monastero di Patti

Mani che si posavano

su spighe di grano

piegate dal vento

recise dalle cavallette

Sguardi di paura

lanciati sul mare

Pasquetta s’era attardata

arrivando con il caldo

Le barche della tonnara

si preparavano

per la stagione della pesca

Furono disposte per terra

le tovaglie con le cibarie

Cola Marotta

come una mano di ramino

distribuì le parti

di una recita a soggetto

Poi, scendemmo a visitare

la chiesa diroccata

La grazia dell’età

ci lasciò a sfogliare

le margherite gialle

prima di scendere a valle

senza parlare 

La stagione che muore

La gente corre alla stazione

Nuvole gonfie corrono nel cielo

Le auto

sfreccian sull’asfalto

Seduto sopra il masso d’arenaria

guardo il mare vuoto di barche,

la montagna bruciata,

i rifiuti alimentari e di plastica

sparsi sul prato per strada

e spingo il fumo della sigaretta

nelle mani chiuse a conchiglia

La stagione che muore


L’attesa

La ragazza s’adagiò

sopra la sulla fiorita

con lenti movimenti

guardandosi in giro

La ragazza respirò

con gioioso abbandono

e la sulla

si piegò abbracciandola

in un lieve mormorio

Il cielo le riempì

gli occhi di serenità

La dolcezza

le riempiva le labbra

e restò in attesa

Un’auto curvò

e proseguì per il canapè

Lei alzò la testa

e si coprì la fronte

con le mani a falda

Ad ogni auto il suo viso

bisticciava con la sulla

e la sua bellezza

si scomponeva

poi corrucciata si alzò

a guardare verso le case

La sulla ormai sfiorita,

abbandonata su se stessa

la sentì andare

Era furiosa e la pestò

fin nelle radici 

La visitazione

Suona nel silenzio

il campanello della porta

Apro con circospezione

E’ Salvo, mio figlio

Bello, alto, sorridente

I capelli sciolti sulle spalle

La bandana gli cinge la testa

Sembra un guerriero

venuto dal cielo

in missione di pace

E’ venuto il mio ragazzo

E’ il tempo

delle vacanze scolastiche

Quasi non ci pensavo

Mancano tre giorni

al Santo Natale

Lo zaino sulle spalle

Alle mani due bambine

Stento a riconoscerle

Eran neonate

e l’ho vedute da lontano

Ora son grandicelle

ma non son cambiate

Il mio ragazzo

ha trovato le sorelle

e me li ha portate

Ciao papà

mi dice con allegria

spingendo le bambine

ad entrare

che stanno a nascondersi

tra le gambe

Aspetto che entrino

e li guardo

scoppiettante d’amore

Dalla gioia non riesco

a tirar fuori dalla gola

neanche una parola

Quando dalle scale,

senza far alcun rumore,

sale veloce, bestiale,

una folata di vento

e mi mangia il sogno

spingendomi

con violenza in casa,

svuotandola

dal pavimento al tetto,

chiudendo la porta

da padrone malandrino 

Quest’uomo

Questo è un uomo

che scivola nella vendetta

Ha chiuso le porte

alla ragione

e fa branco con le armi

cancellando la civiltà

Questo è un uomo

che ha perso la sicurezza

del suo potere

e si fa scudo della paura

della gente

per sentirsi forte

con la forza delle armi

Ha archiviato la libertà

e messo a tacere

i più elementari diritti

dei cittadini

Questo è un uomo

che in nome del popolo

abusa del potere

per interessi personali

Uomo

esamina la coscienza

Uomo

fai un passo indietro

Rispetta la democrazia

Non è la guerra

che vince il terrore

Uomo

questa è arroganza

Non puoi usare il terrore

per mettere le mani

sulla fonte degli altri

Uomo

il potere

della democrazia

non si dimostra

con la guerra

Gente del corvo

Uomini e donne

a disputar la luce

con la terra nera

che la montagna

ha seminato nella vallata

Emigrati, ritornati

a riconvertir anni di fatica

con i figli

lasciati a dimora

Alzarsi all’alba,

correre al pulman

ed andar ognuno

per conto proprio

ed a malapena dirsi: “ Ciao “

L’amore era uno strappo

al ritmo programmato

La sera di ritorno

scodellar quattro spaghetti,

un po’ di pane e formaggio,

sparecchiar

ed entra nel letto

col fiato corto

Gente del Corvo

Uomini e donne

a cercar di restituire ai figli

la dignità

di essere umani

L’emigrazione

è l’incapacità di un paese

ad assicurare un lavoro

ai suoi abitanti

ma che sa trar da essi

beneficio

Gente del Corvo

Uomini e donne

a sputar terra

con la paura

che ogni sacrificio

non sia valso a nulla

La solitudine

Questo camminare

tra autobus ed auto,

fra motorini e persone a piedi

è un rigurgito di anni

ammaestrati al rispetto d’altri,

condotti nei canoni della legge

universale senza tentennare

pur se il rischio di restare

appiccicato al battente della porta

o sul marciapiede era concreto

Ho fatto il mio dovere lottando

contro la collega esuberante,

l’amico arrembante e scalogno

restando a guardarli andare

con auto e vestiti lussuosi

ad appuntamenti e feste galanti

La comunità ha una memoria labile,

dimentica con facilità le stragi

Persisto ad arrovellarmi

in questi anni sacrificati

che han perso ogni valore

Si contorcono come serpi

tra le canne secche

del torrente trasformato

in strada trafficata

Mi par di vivere

con una massa di morti

Sento l’alba che arriva

saltellante, non cammina

Cerco un po’ di pace

ma non riesco ad afferrarla

Sento un brulichio lontano

E’ un sogno

Non è ancora nato

ma sulla soglia il custode

chiede un prezzo da pagare

La solitudine

è una crepa nella mente

che s’allarga e s’abbissa

in un crepaccio senza fondo

Anche quando dormo

mi par di stare a guardare

dietro ad uno specchio

La speranza

è fuggita di casa

ed ormai, neanche i gatti

si avvicinano a cercare

qualcosa da mangiare

Non è pubblicità

La bandiera

è scivolata a mezz’asta

e copre la finestra

del palazzo

Non è pubblicità

Un colpo d’arma da fuoco

ha ucciso l’uomo

che stava a lavoro

per la difesa della società

Era senza una protezione

Averla comportava il rischio

che potesse essere una strage

La gente accorre disperata

ma si ritrae quando scorge

l’assassino dietro il funerale

come un qualunque cittadino

Non basta decretare

la pericolosità

Bisogna dare la possibilità

che la gente abbia un lavoro

e che non le tolga la dignità,

che il territorio

venga bonificato e mantenuto

nettato d’ogni porcheria

L’uomo ha bisogno della libertà

ma che la legge

sia in capo ad ognuno

La società

non si lava le mani

e poi, quando è sbugiardata

chiede scusa

Non è un incidente

quando è ucciso un ragazzino

in motorino

La sicurezza del cittadino

non porta la maschera

e la pistola col colpo in canna

Questo è un comportamento

da stato di guerra

Non è pubblicità

questa civiltà

ha soppresso dal calendario

stagioni e Santi e dei giorni

ne ha fatto un sito di morte

Questa non è pubblicità

Prona sul pavimento

la legalità nonrespira

La dignità

si è liquefatta ed incolore

scende per le scale

e si ferma nella gabbiola

della portineria

Questa non è pubblicità

Siamo alla mercè

di sfruttatori e trafficanti

che passeggiano indisturbati

La gente non ha bisogno

di scarpe col tacco doppio

e di adesivi

per arrampicarsi sugli specchi

E’ una lenta agonia

Non riesco ad alzarmi

Ho le gambi tremanti

e prive di forza

La testa vuota

Mi tiro sulla sedia a lato

Sono senza respiro

Mi accendo una sigaretta

per prendere fiato

ma non mi basta

ed aspetto

Signora cefalù

Seduta sulla battigia

giuocava con l’acqua del mare

prendendo a piccoli calci

le onde sonnacchiose

L’alba che nasceva

la vestiva di rosa

e farfalle che emigravano

le ornavano le spalle

Una sosta per riposare

e poi riprendere il volo

verso il lido lontano

Signora Cefalù

La bellezza del tirreno

e subito me ne innamorai

come un ragazzino

Ogni strada piccola e grande

si aprì con gioia

alla mia curiosità

Artisti di strada

Ballerini e giocolieri,

musicanti e canterini

saltarono nel giorno

in un grande spettacolo

dall’allegoria antica

Gli abitanti del borgo,

con la coppola tra le mani,

la faccia bruciata dal sole,

guardavano senza parlare

seduti a fumare

sulla soglia di casa

Erano stupiti

da cotanta attenzione

Le corsi dietro fino a sera

con un’allegria gioiosa

fino a sentirmi ubriaco

Stanco e col tempo scaduto

lasciai l’amico Giuseppe

a dormire nell’auto

e quasi a beffarlo

salii su un treno

che mi portò ad affrancare

il debito contratto

con la nascita

e servire questa patria

in attesa che mi offrisse

una possibilità di lavoro

Con le orecchie sature

di lingue e dialetti

divenni preda

di ordini e stellette

ritrovandomi a camminare

sul ciglio di una strada

di montagna

carico come uno somaro 

La magia del mare

Stavo a dimora a Patti

ed ero venuto a casa

per il fine settimana

dopo la scuola

Il cielo sembrava sequestrato

da una grande mano scura

Qua e là macchie gialle

e strisce rosa

filtravano tra gli interstizi

delle dita a dar segno

della presenza della luce

Un’atmosfera d’attesa

riempiva l’aria della spiaggia

Ebbi paura

e mi strinsi al braccio

di nonno Francesco

che m’accarezzò la testa

I pescatori

sistemavano i conzi

e le reti da pesca

accanto alle barche in secca

Ora facevano “ u cuntu “

e dividevano le “ parti “

del fruttato del pescato

al netto delle spese dell’esca

Il mare respirava le acque

in un lento moto ondoso

Dalla rocca del Tindari

uscì una vela

Si dirigeva verso le isole

e le navigai a babordo

con allegria 

L’ultimo pescatore

La paranza quasi a riva

strappa e sconvolge

fauna e flora

Il pescatore

accanto alla barca in secca

con la rete coperta di sabbia

fuma con rabbia

e bestemmia sottovoce

contro la finanza

accecata

E’ subito

colpito da tosse

Si piega su se stesso

e guarda di sottecchi

il mare

Una conca di bagnarole

aspettano la domenica

per scendere in mare

Il serbatoio pieno di benzina

e vanno in lungo ed in largo

senza avere la conoscenza,

senza rispetto

Il pescatore

guarda il cielo,

le nuvole che si raccolgono

sul golfo oscurandolo

ed a passettini s’allontana

verso casa

con le mani

dietro la schiena

giuocando con due pietre

bianche 

Cronaca notturna per un canto d’amore

Sculture svolazzanti

scompaiono all’orizzonte

inghiottite dal buio

all’improvviso

Son trasbordati da un vento

maledetto, impetuoso

Una striscia martoriata

segna il loro passaggio

sui muri di ogni strada

E’ una guerra senza tregua

Nicchie guarnite di fiori

ne disegnano curve e rettilinei

E’ una corsa senza scampo

di creature abbandonate

a se stessi

Vanno alla rottamazione

con l’età in fiore tra le mani

Colpi mortali

scardinano le porte

e chiamano a raccolta

gli abitanti delle case

Un signore senza nome

sequestra le loro menti

e li segrega in una funeria

Ha un ossario di teste rasate,

di menti appena anneriti,

di orecchie ornate

e braccia tatuate

Questa e’ una cronaca

per un canto d’amore

per ogni famiglia,

per ogni persona

che ha dimenticato nel vuoto

il proprio figliolo

La lezione

Un ragazzo ed una ragazza

abbracciati teneramente

entrarono nel parco

accompagnati

da una mattinata sonnacchiosa

seppur avanzata

Le statue lungo il viale

sembravano accigliate

e guardavano sospettose

Avevano le facce

segnate da simboli di morte

ed il busto insultato

da fanatiche scritture

I pini imbronciati

al loro passaggio

lasciarono cadere

manciate di aghi

sulla strada

L’orologio sulla collinetta

ai loro piedi

chiuso in un cerchio di fiori

di varie specie

era fermo in attesa

Il ragazzo e la ragazza

si rifugiarono nella panchina

tra il pino nano

e gli oleandri in fiore

Passò una bicicletta

ed una coppietta

Quando un vigile

penetrò nell’incavo

e con arroganza

li minacciò d’ipotesi di reato

costringendoli a vergognarsi

del loro amore

Intendeva dar lezione

al giovane collega

inventando le prove 

L’identità perduta

Il ragazzo

camminava raso i muri,

le vetrine

senza guardare

Attraversava la strada

sulle strisce pedonali

allungando il braccio

con nella mano

uno specchio d’auto

Camminava

mettendo i piedi

uno avanti all’altro

senza tempo

Ha cambiato città,

case e scuole

ed ora è solo

senza un punto di riferimento

Ha perso l’identità

Strisce nere

gli segnano la fronte

e le guance

La voce cavernosa

grida silenzio

al dolore che gli brucia

la mente

Va da casa

all’ufficio del padre

e ritorna senza fermarsi

Lo specchio sul naso

a cercar d’appiccicar

i pezzi

dell’identità perduta 

Fiori di luce

Questa notte sono andato

a raccogliere

fiori di luce

Nella valle del Saleck

mi è venuta incontro

Manuela

Aveva un foglio

arrotolato in mano

e mi salutò sorridendo

con grande affetto

La borsa da viaggio

che portavo sulle spalle

subito mi si fece leggera

Andando avanti

ho visto Salvo

che stazionava a mezz’aria

dentro un cono di luce

Mi sembrò oltre l’attesa

in una dimensione diversa

e non ebbi il coraggio

di dirgli nulla

Poco dopo

con fare scontroso

s’avanzò

Maria Carmela

La baciai sulle guance

Volevo stringerla

tra le braccia

ma continuò a camminare

Turbato, mi girai a seguirla

Nascosta fra due querce

notai una maschera

dai lineamenti contratti

Quasi si confondeva

con l’oscurità

ma la riconobbi

e mi alterai

ritenendola causa

del suo comportamento

Non ebbi lo spazio

di cancellare quel pensiero

che la valle fu preda

di una nuvola di tempesta

che la riempì di un buio pesante

disperdendo

i fiori di luce

Contrariato mi avviai

alla fermata del pulman

Sulla strada entrai

nella rivendita di tabacchi

Comprai le sigarette

e gomme da masticare

per i ragazzi

e le sciolsi nel taschino

della camicia

Ma il bisogno di rivedere

i miei fiori di luce

mi pressava a ritornare

nella valle del Saleck

Volevo rivederli fiorire

e mi accinsi ad andare

Sentii la mente

e la trovai sgombra di rancore

Ero di nuovo sereno

e spinsi per immettermi

sul marciapiede

Ma la folla era impetuosa

e mai avrei pensato

che la fretta potesse

trasformarla in incivile

chiudendomi in un gorgo

che m’impedì di camminare

Sballottato da ogni lato

ad un tratto mi ritrovai

ai margini, fuori di essa,

seduto sul muretto

di un’aiuola comunale

a fumare

con un cane che mi pisciava

nella gamba sinistra

I COLORI DELL’AMORE

Ho preso a prestito il mio tempo per chiedermi

quali sono i colori dell’amore

ed ho quasi perso il respiro per ascoltare

Ho sentito il silenzio della notte

che mi girava intorno

e mi sono perduto nella luce del giorno

Il camionista

La gente

ritorna a casa

nella quiete della sera

Il Camionista

prende posizione sul sedile,

addomestica il volante

mette in moto e parte

Un lungo viaggio

Andata e ritorno

Scarico e carico

ed ancora

Ha le ore programmate

e giorni interi e notti

Non ha molto tempo a disposizione

Quella gente lo infastidiva

Andava a rilento

e gli intralciava la strada

Misurava il percorso

L’orologio al polso

lo incitava

La frenesia gli palpava

le mani ei piedi

All’autostrada pigiò l’acceleratore

e graffiò l’asfalto

Pareva un animale all’attacco

Il Camionista

era temprato alla fatica

Era il suo mestiere

Aveva una famiglia a carico

ed aveva l’obbligo

di mantenerla bene

L’oscurità della notte

gli sfuggiva dagli occhi

La curva all’improvviso

gli saltò addosso

e non riuscì a fermarla

Gli sembrò una bestia feroce

che voleva ammazzarlo

Forse pregò o non ebbe

il tempo di pensare

Saltò nell’altra corsia

e spazzò fuori un auto

Ne travolse ancora un’altra

e sbattè contro un pulmino

di turisti e deviò

piombando nella vallata

Un mezzo di lavoro

è stato trasformato

in un’arma omicida

e la corsa al denaro

aveva dato il suo frutto

L’ANNIVERSARIO

Le persone hanno la memoria dei grilli, stanno raccolti nell’estate

e parlano, saltano nei giorni e si raccontano, non riesco ad ascoltarle.

La tua voce mi chiama e non riesco ad individuare il luogo di provenienza,

la sorgente non ha fisicità, la sento e con l’ansia che e mi trema nei muscoli,

vengo a cercarti anche se so che non posso abbracciarti e scivolo per una parete

di marmo bianco striato di rosso, sono caduto in una vallata, in una galleria,

un lungo tubo di rovi, una muraglia, un enorme cespuglio aggrovigliato.

Sono rimasto ad aspettarti, non verrò a cercarti, non c’è alcun ritorno,

nessun compleanno da festeggiare, andare in vacanza al mare dai nonni,

l’incidente, l’auto a fuoco, la corsa con la strada, ha interrotto la tua gara

e sei morto, ogni progetto si è frantumato ed ho spento sul nascere,

il coraggio di sperare nel domani, in un futuro diverso.

L’anniversario ha sostituito il compleanno ed ho voglia di parlarti,

quante cose avrei da dirti, quante cose vorrei sapere e mi perdo per le strade

piene di luce, stracolme di gente, e non cerco alcuna compagnia.

Ho paura di parlare, grido e non mi accorgo di farlo, quanto t’avrei voluto

Conoscere meglio, un figlio è sempre una sorpresa, è portatore di conoscenza,

la morte è devastante, è un dolore che non si può dividere, è inaccettabile.

ACCORDINO ANTONIO

www.accordinoa48.it

antonioaccordino@gmail.com

    

Il diploma di scuola media superiore, accompagnato all’ardire

di richiedere, dignità e giustizia, per una società asservita

ad un potere che non consente il diritto se non gli appartieni,

mi ha costretto, a lasciare il villaggio e cercare lavoro,altrove,

all’incontrario, della professione di tecnico Sanitario di radiologia

Medica, che m’ha ricondotto, a meno di venti chilometri da casa

con negli occhi l’umiliazione e la fatica d’aver disperso i migliori anni

Spinto dall’esperienza per le lotte perdute, ho adeguato la mente

all’intendere del proprietario e con le mani dolenti per il trasloco,

cercavo di rilassarmi in un piano rialzato composto di due vani

nel centro cittadino di questa città agricola e marinara, consegnata

 all’industria della trasformazione che anziché offrire e mantenere

occupazione ha conservato l’emigrazione e vomitato veleni mortali.

Ogni giorno tento d’alleggerire le difficoltà derivanti dal disordine

alimentare che la malattia del diabete reclama senza pudore

e mentale che la solitudine mi recita con crudele avidità,

barcamenandomi col turno di servizio, la spesa, la preparazione

del pranzo e della cena, una passeggiata, aspettando le vacanze

per le feste comandate e quelle estive per godere della presenza

del mio ragazzo, accettando il sovraffollamento della casa genitoriale

Un giorno a sorpresa, venne in auto col cugino ed a sera ripartì

con la promessa di telefonarmi appena rientrato dalla madre.

I giorni s’accumularono e divennero un groviglio di fiori rottamati

Il silenzio m’induceva a mal pensare e mi mandava fuori equilibrio

La madre considerava la casa un letto per riposare dalle visite

agli amici, ai negozi di lusso esaltandosi a comprare lasciando

la cura del resto, compreso il figlio, alla volontà del Signore grande.

Il possesso, il denaro le estorcevano il cervello trattenendola  al lavoro

Andai a cercarlo al vecchio quartiere che crepitava di malaffare e morte

M’aggirai dalla porta alla finestra, sotto l’occhio sospettoso della gente

Pensai che fosse andato da un compagno a confortare la solitudine

Mi saltò in mente che la sua presenza fosse conosciuta alla nonna

e con l’ansia che mi consumava con una lenta  vendetta, salii il monte

Il diabete reclamava assistenza e contrariato mi disposi al ritorno

Una barca di legno attraccò planando alla stazione e mi sedetti a prua

Voltando lo sguardo, scorsi mio figlio sulla strada, in fondo alla valle.

I capelli acconciati a treccine,  s’allontanava veloce, dall’abitazione

di mia cognata che lo chiamava con voce inclinata, dalla soglia

del garage, con forno per il pane ed adattato all’occorrenza.

Mi avviai a raggiungerlo e senza respiro lo vidi balzare in barca.

con un’espressione  corrucciata, gli occhi bianchi, stralunati.

Una pozza di luce lo pervase e mi espulse dall’attesa, sciogliendo

gli ormeggi, precipitando oltre il buio, in una navigazione turbolenta.